ILO Forum Racconti Erotici / Hard IL CORSO SERALE

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    Il corso serale

    Sono un programmatore di software. Qualche tempo fa mi è capitato di tenere un corso di aggiornamento sulla release di un prodotto gestionale sviluppato dall’azienda per cui lavoro. Vivo in una provincia il cui tessuto industriale è composto per lo più da piccole aziende, in cui la contabilità è compito preposto a segretarie o alle stesse imprenditrici proprietarie delle aziende. Questo per dirvi che i ventidue partecipanti al corso erano tutte donne.
    La cosa non mi ha preoccupato assolutamente. Le lezioni si svolgevano in orario serale, dalle venti alle ventidue, in un’aula di una scuola superiore, dato che il progetto era sponsorizzato dalla provincia.
    Ho notato quella ragazza fin dalla prima volta, ma non è successo nulla. Certo spiccava per lo sguardo fiero e curioso, per il modo elegante e aggraziato con cui sedeva e prendeva appunti: la sua voce era come argento, allegra e solare, e aveva occhi come lampi.

    Durante la seconda lezione, a distanza di un paio di giorni, ho avvertito il suo sguardo seguirmi attento, mentre spiegavo le noiose funzionalità dell’applicazione. Mi sentivo lusingato e leggermente nervoso, essendo io single in quel periodo. Portava una gonna a portafoglio sopra il ginocchio, calze grigio scuro e stivali. Il maglioncino nero lasciava intravedere un seno prosperoso e invitante, il colletto della camicia esaltava la pelle candida del collo, e il suo sguardo divertito e attento mi cercava continuamente.

    Quella sera, terminata la lezione e riposto il computer portatile nella borsa, sono stato colto da una strana sensazione. Uscendo mi aveva salutato con affettata enfasi e un sorriso che mi aveva sciolto il cuore. Nell’aula vuota sembrava permanere qualcosa della sua conturbante femminilità, forse una traccia di profumo, anche se non mi sembrava di sentire alcun aroma o essenza nell’aria. Mi sono avvicinato alla sedia su cui lei aveva seguito le mie spiegazioni, in seconda fila, sulla destra rispetto al proiettore utilizzato per mostrare schermate ed esempi. Mi sono chinato, annusando l’aria intorno a me. Non percepivo nulla di definito, ma ero attratto dal sedile, in cerca di un dettaglio che mi sfuggiva: in controluce l’ho visto lucido. E bagnato.
    Con il naso a un centimetro dal legno consumato dal tempo, ho respirato più forte, dipingendo nella testa visioni oniriche di quella donna che accavallava e scavallava lentamente le magnifiche gambe, scostando la gonna di quel tanto da mostrare che non portava biancheria intima. Ma il sedile era veramente bagnato e lucido. E ancora caldo. E con vergogna che confesso di aver toccato con la punta della lingua la seggiola. Poi l’ho leccata, più volte, percependo una immediata e violenta erezione nelle mutande. Mi girava la testa, e la bocca era improvvisamente secca. Mi sono tirato su di scatto, con la paura che qualcuno potesse avermi visto, ma grazie al cielo anche il corridoio era vuoto e deserto.

    Tornato a casa, disteso nel letto, mi sono dato del pazzo. Non ho dormito, tormentato dall’affascinante corsista che mi ero immaginato, leccando il suo sedile… Mi sentivo confuso e non ricordavo bene, ma quel profumo, quel tepore sul legno… Il gusto che avevo provato… Non poteva essere il legno, no!
    Per quanto pazzesco potesse essere, era venuta veramente senza mutande a lezione. Era stato il dolce miele che aveva lasciato sulla sedia che mi aveva attirato. Lo sentivo ancora in bocca, nonostante mi fossi già lavato i denti, nonostante avessi leccato solo una piccola striscia di piacere. Sono riuscito a dimenticarmi dell’accaduto solamente il mattino dopo, una volta entrato in ufficio e aver ripreso contatto con le solite problematiche lavorative. Credevo fosse finita lì, ma mi sbagliavo.

    Dopo due giorni, sempre di sera, sempre nella stessa aula, ho tenuto la lezione conclusiva. Mi ripetevo che dopo allora non l’avrei più rivista e il mio folle gesto sarebbe rimasto un ricordo, uno di quegli aneddoti da confessare agli amici, dopo un cicchetto di troppo. Ma non è andata proprio così. Mi sono accorto fin da subito che era vestita allo stesso modo; cambiava il colore del maglioncino e delle calze e in più portava un paio di parigine sui collant… O erano autoreggenti? Balbettavo tutte le volte che ne incrociavo lo sguardo. Mi ripetevo che non era possibile: uomini e donne non emettono feromoni come gli insetti, eppure sentivo nell’aria, distinto dai profumi dozzinali e scadenti delle sue compagne, il profumo equivalente al gusto percepito sulla sedia, lo risentivo prepotentemente in bocca. Ho dovuto terminare prima del tempo la lezione, con gran sollievo di tutte le partecipanti, data la noia dell’argomento. Lei mi si è avvicinata con fare sbarazzino e una punta di malizia nello sguardo che mi ha letteralmente paralizzato. Mi ha chiesto qualcosa riguardo una specifica e complessa funzione sulla gestione dei resi di magazzino, ma non ricordo neanche più quale fosse la domanda: furbescamente era riuscita a far svuotare l’aula dalle altre allieve, fra saluti, strette di mano e ringraziamenti per il corso tenuto, fin quando l’eco degli ultimi passi era svanito nel corridoio. Mi stava davanti, sorridendo, con il quaderno degli appunti stretto al petto, le gambe leggermente aperte e un sorriso sfrontato. Mi viene da sorridere perché non so ancora adesso come si chiamasse. Non so nulla di lei, se non che mi ha fatto perdere la ragione.
    «Mi vuoi, vero?» Il tono della voce era volutamente basso e sensuale. «Mi hai annusato, perché sei goloso. Come me.»
    Non mi sono mai drogato in vita mia, ma dopo questa esperienza io stesso dubito di quanto sto affermando. Nell’attimo di silenzio che è seguito alla frase, ho sentito chiaramente il suono caratteristico di gocce che impattano su una superficie solida.
    Plick…
    Ma non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi, che mi bruciavano l’anima. Pensavo fosse un’allucinazione, ma quel rumore, quello sgocciolio lo sentivo chiaramente in testa.
    Plick…
    Mi sorrideva, come se sapesse cosa mi stava succedendo. Ma come era possibile? Plick…
    Ho fatto scivolare lo sguardo verso il basso: stava a gambe aperte con la gonna scostata, il suo sesso era rasato in un’ordinata e conturbante strisciolina di pelo fulvo, il clitoride lucido e gonfio, e la sua vagina era come un fiore che stillava dense gocce di quello che ho immaginato essere zucchero liquido, nettare divino, ambrosia per gli dei. Densi e ialini filoni si distaccavano, si allungavano, protendendosi a terra, dove creavano una piccola pozza sul pavimento. Ho pensato che fosse lei la drogata, a tal punto da potermi allucinare rilasciando nell’aria chissà quali sostanze stupefacenti. E in quel modo, poi. Non ci siamo più detti nulla: come in un sogno, come se una volontà esterna alla mia (ma ero io, sapevo perfettamente quello che stavo facendo) mi sono accucciato a quattro zampe e ho leccato il suo piacere dal pavimento, gustando ogni lappata, ogni passaggio sulla piastrella lucida, come se ne dipendesse la mia stessa vita; ho rialzato lo sguardo solo dopo avere leccato tutto. Lei mi guardava, in piedi, con la vulva sullo spigolo della cattedra. Poi si è seduta sul piano e, mentre si distendeva e si metteva comoda perché io ne potessi godere appieno, ho succhiato lo spigolo della scrivania, intriso del suo dolce veleno, di quella sua straordinaria droga. E infine mi sono abbeverato alla fonte, leccando, succhiando, scavando con la lingua, mentre lei si dimenava sulla cattedra e mi spingeva la testa sul sesso. Avevo la bocca piena dei suoi umori, al punto da dover inghiottire quel dolce miele ogni due o tre lappate. Il piano del tavolo si bagnava, nonostante mi dessi da fare perché nulla andasse sprecato.
    Non so dire quanto tempo sia passato: lei godeva, urlando, gemendo, e mi chiedeva di prenderla lì, di prenderla subito. L’ho fatta mia, penetrandola ora dolcemente, ora con foga, riempiendola del mio sperma, leccandola subito dopo, bevendo i nostri semi mischiati in un cocktail che aveva del divino. L’ho penetrata ancora, e ancora bevuta, stupendomi di quanti orgasmi avesse lei e di quanti ne riuscissi a raggiungere io, schizzando il mio fuoco liquido sul clitoride, sulle cosce, sulla pancia, succhiandole le dita che si infilava nel sesso, avida, nelle brevi pause che passavano fra la penetrazione e il sesso orale. Mio dio, in che stato di deliquio io abbia passato quella sera, non so veramente dire: mi sono risvegliato a notte fonda, piegato, svenuto prono a metà sulla cattedra, in quel mix di umori afrodisiaci, impiastrato totalmente del nostro piacere. Ero solo. Imbevuto del mio sperma e dei suoi succhi stava un foglio A4 a quadretti, di quelli che usava per prendere appunti: “GODO ANCORA!”

    Il silenzio totale assordava le orecchie. Le luci erano spente. Ho avuto paura di essere rimasto chiuso dentro la scuola, ma per fortuna l’ingresso principale era aperto.
    Chissà da quante ore era andata via lei? E chi era? E che cosa mi aveva fatto, come era riuscita a stordirmi in quel modo? Ho pensato di effettuare analisi del sangue, sicuro di essere stato drogato in qualche modo; ma nonostante la paura e lo sbigottimento, mi rendevo perfettamente conto di non aver mai goduto così tanto in vita mia, di non aver mai goduto di una donna tale, di una così vogliosa e insaziabile.
    Sono rincasato e sono svenuto nel letto, adducendo la mattina dopo un malore per potermi assentare da lavoro e riprendermi. Dopo qualche giorno ho avuto la certezza che nessuno fosse venuto a conoscenza degli eventi e mi sono rassicurato. Convinto di aver vissuto una di quelle situazioni che capitano una sola volta nella vita, ho deciso di non farne parola con nessuno… Fino a oggi. Non ho cercato di risalire alla sua identità, avendo distrutto la lista delle presenze al mio breve corso; né mi aspettavo di incontrarla per strada, per una banale coincidenza. Insomma mi stavo dimenticando dell’accaduto e consideravo chiusa la faccenda. Fino a ieri sera, fin quando, arrivato davanti a casa, una villetta indipendente, non sono stato colto nuovamente da quella strana sensazione, da quella vertigine impalpabile. Non ho collegato subito la sensazione che provavo al ricordo di quella bizzarra storia, onestamente non me lo aspettavo, seppur il cuore avesse preso a battermi all’impazzata nel petto e in bocca sentissi nuovamente il gusto del paradiso. Appoggiata alla porta di casa c’era la mia penna stilografica, che ero solito portare agganciata nella tasca interna della giacca, e del cui smarrimento non mi ero neanche accorto.
    Era lucida. E bagnata, ancora tiepida. Con le mani che tremavano, l’ho avvicinata al naso, l’ho schiacciata sulle labbra: l’ho leccata e succhiata avidamente. Mi tremavano le gambe, mi girava la testa; mi sono guardato intorno, quasi mi aspettassi di vederla, o di vedere qualche passante scandalizzato da quel mio gesto da pazzo, ma non c’era nessuno. Ho infilato le chiavi nella toppa, dopo diversi tentativi falliti, con una preoccupante frenesia, agitato come non mai. Sono entrato, ho richiuso la porta appoggiandomici contro, con gli occhi chiusi e il fiato corto. E sono scoppiato a ridere come un folle, felice, pieno di lei, del suo dolce veleno che mi circolava ancora nel sangue.
    Godo ancora.
    Lei era lì, nel mio salotto, con le calze abbassate e la gonna scostata, stesa sul divano, già bagnato, macchiato di voglia e piacere, pronta per la mia lingua che non poteva più dimenticarla. Era lì, che mi chiamava, mi voleva, bramava le mie attenzioni… Lei era lì, davanti a me, bella come il peccato… Lei, che era lì, desiderio puro e selvaggio incarnatosi in donna… Era lì, davanti a me… O forse no, non ricordo bene… Non ricordo più, da quando ho perso la ragione…

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